Da qualche parte nel profondo, presentazione del libro “Alessandra Rovelli – Life Box”, ottobre 2018

Alessandra Rovelli. Da qualche parte nel profondo

di Alessandra Redaelli

L’arte oggi, quasi alla svolta dei primi vent’anni del III millennio, sta vivendo un cambiamento importante. Se le derive più hard del concettuale sembrano oramai agli ultimi colpi di coda, il diffuso desiderio di un certo ritorno all’ordine non può comunque prescindere dalla preziosa eredità che proprio quel concettuale (quello militante delle avanguardie dure e quello poetico dell’arte povera e della land art) ci ha lasciato. Accanto a una certa critica che sostiene come tutta l’arte sia contemporanea, io mi spingo a dire che tutta l’arte – oggi – è concettuale. Prendiamo Alessandra Rovelli con i suoi paesaggi nebbiosi, lirici, sussurrati, condotti in strisce di materia pittorica o declinati in prospettive infinite. Sembra che non possa esistere nulla di meno concettuale di un bosco o di una veduta urbana scandita dalla regolarità dei pali della luce, effettivamente. Eppure non è così. Già la scelta di muoversi in bilico tra figurazione e suggestioni astratte e la predilezione per una materia pittorica ruvida, scabra, pongono Rovelli nel novero di quegli artisti che vogliono instillare nello spettatore il seme del dubbio e lo spaesamento. E poi c’è tutto un bagaglio di passato, di emozioni e di assonanze che posizionano i lavori di Rovelli ben oltre il semplice tema del paesaggio. Viene certamente da pensare ad Anselm Kiefer e a Ennio Morlotti, è vero, con i quali queste opere mantengono una similitudine di atmosfere e di sguardi; ma se si cercano affinità profonde, affinità emotive, mi pare di poter rintracciare assonanze diverse. Penso alla lirica struggente di un Peter Doig, che stempera i suoi paesaggi in onde di materia liquida fino a farli diventare altro da sé, emozione pura. Penso agli scorci di Edward Hopper, a volte solo sfondi ma non per questo meno protagonisti, intrisi di inquietudini metafisiche. E ancora di più penso alla fotografia forse più conosciuta di Andreas Gursky (una fotografia, per dire quanto queste suggestioni vadano oltre il mezzo), quel Reno II risolto in sei strisce in gradazione di verde e di grigio. E anche nella materia ruvida che Rovelli utilizza per raccontare la sua natura – ruvidità che negli anni si è andata ammorbidendo, ma che è rimasta nella densità del colore, nei piccoli grumi che giocano col cadere della luce – non vedo soltanto un riferimento alla terra dove è nata e dove vive, alla nebbiosa campagna lombarda, ma anche un indizio messo lì per noi, a ricordarci come tutto abbia spessori inaspettati e terze e quarte dimensioni segrete e come proprio dentro le ombre di quegli spessori a volte si celino le verità più profonde. Non a caso l’artista ha scelto come supporto per la sua pittura delle scatole di cartone, sulle quali stende la tela. La classica pittura su una tela intelaiata e poi appesa al muro non le basta. Non si tratta soltanto di un vezzo estetico, del desiderio di dare a questi paesaggi una presenza più imponente, una diversa autorevolezza nell’occupare lo spazio. No. Si tratta proprio dello spazio. Per Rovelli ciò che si muove “fuori”, sulla superficie (e mi riferisco ora a qualsiasi superficie, non necessariamente al dipinto) è sempre inderogabilmente legato a un “dentro” nel quale si addensano i significati, si concatenano le motivazioni e si annidano i sentimenti e le emozioni. Ed è proprio in quel dentro che batte il cuore della sua pittura. In una visione per certi versi animistica della natura, Rovelli ci racconta di boschi che sussurrano, che vibrano di ricordi, di pensieri e di presagi; ci spiega – spalancandoci un mondo – che i segni verticali che scandiscono lo spazio, quelli che noi leggiamo come tronchi spogli o come pali della luce, sono in realtà esperienze, dolori e prove. Ci spinge a domandarci se nel percorso dell’esistenza queste prove ci abbiano fiaccati o rafforzati e se vederle lì, una accanto all’altra, ci spaventi oppure ci dia l’esatta misura della nostra forza e della nostra capacità di reazione. E pian piano fa nascere in noi la convinzione che dentro quella scatola, nello spazio buio che noi percepiamo come vuoto, il bosco continui, nuovi cespugli inventino nuovi fruscii, oppure la strada si sviluppi in curve inaspettate e in biforcazioni dirette verso un altrove che non ci è dato vedere. Alessandra Rovelli ci invita a visitare i suoi luoghi oscuri e lo fa, paradossalmente, proprio negandoci l’accesso, sigillandoli e consegnandoli così al mito, al segreto, allo spazio del sogno. Solo con l’installazione Into the deep l’artista decide di concederci una chiave d’ingresso. Nascosta, in una stanza in penombra, la cortina di cielo notturno e di tronchi fantasma ci accoglie come un tempio, uno alla volta. Il silenzio rotto appena dalla materia candida e scricchiolante che abbiamo sotto ai piedi. Entrare in un dentro altrimenti proibito è qualcosa che di tanto in tanto l’arte ci permette di fare. Penso a Mona Hatoum e al suo capolavoro Corps étranger, viaggio allucinante che porta lo spettatore dentro il corpo dell’artista stessa seguendo il percorso di una sonda endoscopica. Una corsa mozzafiato tra il battere delle ciglia e il condotto lacrimale, lungo l’epidermide e poi dentro, tra paesaggi organici e misteriosi, a scoprire come ciò che più strettamente ci appartiene ci è in realtà profondamente sconosciuto, accompagnati dal suono irregolare e affannoso del respiro e dal cupo ritmo del battito cardiaco. Un video sensuale e terrificante al tempo stesso, reso ancora più disturbante e claustrofobico dalla decisione di Hatoum di proiettarlo all’interno di un angusto contenitore cilindrico in cui si può entrare solo uno alla volta. E poi penso a Pipilotti Rist e alle sue videoinstallazioni sensoriali e gioiosamente erotiche, con i primi piani su una natura lussureggiante e su parti di corpi maschili e femminili che finiscono per perdere le loro connotazioni reali, diventando a loro volta fiori pulsanti e frutti succosi. Hatoum e Rist, due donne, non a caso. Perché il guardarsi dentro – talvolta fino a farsi male – il voler cogliere a tutti i costi il senso profondo pare sia una caratteristica prettamente femminile. E così è dunque anche per Rovelli, che costruisce le sue scatole e poi ne sigilla i segreti per noi, facendone il supporto di paesaggi che partono dalla realtà per sconfinare nell’inconscio; e che ci schiude le cortine del suo rifugio in un’installazione sensoriale, che a tratti rivela e a tratti nasconde, per portarci un po’ più vicino al centro di noi stessi.