V. Cwalinski, Fields, presentazione in catalogo, Museo Civico, Crema, 2005

FIELDS

Mi capita spesso di percorrere in macchina la Rivoltana provenendo da Milano in direzione Caravaggio, talvolta, durante la stagione estiva, fino a Rovato. Più volte sono rimasto affascinato dalla bellezza dei campi, dal loro silenzio e dalla loro ‘sacralità’, quando s’aprono come mantelli, soprattutto dopo aver superato la Villa Invernizzi, con l’immenso parco in cui al principio della primavera cervi e daini brucano i germogli appena spuntati, e poi via via attraverso Liscate, Melzo,Truccazzano, e qui, quando le giornate son serene, si apre sulla sinistra una visione meravigliosa, con la terra che si estende a perdita d’occhio, piatta, arata, e lo sguardo può spaziare liberamente, fino a contemplare la Grigna, la Grignetta e il Resegone, innevati, limpidi, assoluti. E poi avanti dopo il canale Muzza, attraverso l’Adda, fino a Rivolta, dove talvolta capita, soprattutto in inverno, di incontrare qualche airone cenerino appollaiato ai bordi della strada, che sta lì, senza paura, ad osservare le auto e i camion che passano. Presenze immobili che mi tengono compagnia, mute sentinelle rassicuranti, rispetto ai neri corvi, inquietanti, che si divertono a svolazzare da un lato all’altro della carreggiata. Più volte mi sono riproposto di dire A Giovanni Frangi che della terra, e della terra lombarda soprattutto, ha fatto un’epopea, di venir lì a dipingerli, quei campi. Non l’ho ancora fatto. Penso che glelo dirò alla prossima occasione. Intanto sono rimasto molto stupito che una giovane artista,Alessandra Rovelli, proprio quei campi aveva iniziato a prendere in considerazione, a guardarli, percorrerli, disegnarli, a dipingerli, ecco. Dipingerli? Non so se il verbo sia adeguato, perche quello che la Rovelli fa non c’è parola per descriverlo. Lei questi campi prima di tutto li ama, li contempla, li scava, ne prende le terre, gli arbusti, gli sterpi, la cenere dei falò accesi dai contadini. La stessa terra , arbusti e cenere che appaiono poi nelle sue opere dove la neve sta lì, nei solchi, talvolta marcisce, diventa acqua, e le zolle tornano a riaffiorare, umide. Ciò che mi preme chiarire è come questa scelta, estetica di giudizio sul mondo, un mondo, che può apparir inusuale, ha invece una precisa tradizione, come un fiume carsico, nell’arte del Novecento, italiana, europea e, in alcuni casi, anche statunitense dalla quale occorre essere fieri. Sì, fieri perché questa costituisce un legame, una preferenza elettiva ad sentire comune, profondo, come i solchi dei campi, come i crateri dei vulcani. Si veda ad esempio Sacco 4 di Alberto Burri(fig.1) realizzato in tela di iuta, vinavil, seta e pigmento su tela di cotone. Che altro esprime se non un legame viscerale con i materiali poveri legati alla terra, tanto che di lei, al di là dell’intenzione che nella poetica informale poteva apparire superata, potrebbe essere la visione ri-creata dall’alto? Occorre subito chiarire, onde evitar equivoci, che non si tratta qui di una questione tecnica ma unicamente estetica, di un sentimento profondo, transnazionale, le cui radici però in Lombardia affondano indietro nei secoli, nei mattoni e nella malta dei Maestri Comacini, agli albori del Medio Evo. Oppure Paesaggio di Ennio Morlotti (fig.2) con quell’impasto di colori scavati, lacerati che altro non è se non il voler spremere quella materia fino a vvederne il succo gastrico, l’umido impulso vitale, come quello dei semi che nella terra germogliano? E ancora il Molo a spirale di Robert Smithson (fig.3), realizzato con terra e pietre nell’ambito dell’avanguardia americana conosciuta come land art presso il Grande Lago Salato dello Utah, che altro esprime se non lo stupore di riconoscere che la terra è già, e di volerne quindi fare un’opera d’arte?E per arrivar a tempi, ed esempi, più recenti si può osservare Campo lungo N2 di William Congdon (fig.4) che nella Bassa milanese, dove a primavera si vedono ancora le raganelle saltar nei fossi, consumò l’esistenza. “Con il campo che si alza, si estende fino quasi a cacciare via il cielo”, scrive nel suo diario; “si alza”, sì, risucchiato all’orizzonte da un lembo di cielo azzurro, e, solcato da un pettine come da un aratro scende giù, come una colata di lava sabbiosa densa di cenere. Nigredo di Anselm Kiefer (fig.5), dove il risultato dellì’immagine fotografica ritoccata con gomma lacca e paglia, rivela una poetica del sublime che fa sentire la distesa dei campi come qualcosa d’immenso, primordiale. Giungiamo quindi a Campi d’acqua di Alessandra Rovelli (fig.6) dove la neve ormai sciolta si nasconde nei solchi, tra le zolle, e lo stesso andamento lineare del terreno, di questo si tratta, ci parla, dal carbone alla cenere, del suo voler dipingere l’infinito dove i campi vanno a perdersi nel bianco del cielo. Una sorta di ribaltamento avviene invece in Campi di neve dove la distesa, soffice, solcata da impronte, si scioglie all’orizzonte quasi a voler toccare le nuvole nere. Oppure nel taglio forte, netto, di Campo ghiaccio, distesa cretacea dove tracce di rosso lottano dove la terra finisce. Quindi da Burri alla Rovelli, passando per Morlotti, Smithson, Congdon, e Kiefer, si evidenzia un sentimento comune verso la natura, che non disdegna di abbassarsi agli aspetti umili della materia, per ritrovare-e questo per Alessandra Rovelli è già un presente- i propri paesaggi interiori, sollecitati da ciò che si è visto. Un solo augurio le faccio. E’ quello di aprirsi al mondo, anche dell’arte, senza abbandonare questo soggetto. Perché lì c’è (il mondo).

Vladek Cwalinski