O. Pinessi, Al principio fu la terra, in “Citta dei mille”, aprile-maggio 2003

AL PRINCIPIO FU LA TERRA

La pittura “informale” di Alessandra Rovelli nasce da una lunga elaborazione del concetto di materia

Si vedono queste ultime opere di Alessandra Rovelli (artista giovanissima, appena ventisettenne ) e si sente l’eco di un canto dedicato alla terra, quella terra che è il centro del tutto, l’inizio, il Verbo con cui si apre il Vangelo di Giovanni, lo schiudersi della luce, il premere che fa la notte.
Ma Alessandra è ben lontano dal naturalismo, o da un certo Ottocento di maniera, come pure dallo scavo sublime di un Morlotti, si concentra solo sulla descrizione di una atmosfera, di un luogo che non è dentro di noi e neppure fuori di noi. Il luogo c’è da sempre, il solo luogo che tiene sovrapposti, compenetrati, la voce e il silenzio, il tempo e la sua cessazione, la luce e l’ombra.
La sua è l’eleganza dell’assenza, l’esserci quando tutto è trascorso, quando il rumore del mondo ormai non giunge più e il respiro appena sillabato è il solo bene prezioso che resiste. In quel momento l’artista si immerge nel paesaggio, come reliquia da offrire dentro un ostensorio, come pergamena ancora umida. Ecco questa natura né turbata né misteriosa, ma dilagante nei suoi orizzonti non contaminabili: è la vasta pianura lombarda quella in cui nasce l’opera di Alessandra Rovelli, frutto di una lunga elaborazione che poi si attua in una materia che mima l’esile respiro di quella terra. Non allegorica, mai casuale, la sua “natura” ha la forza di una età remota, forza che trattiene ed espelle, fonte della vita e fonte della morte, culla di tutto e del nulla.
Non c’è niente di eroico né di retorico in queste visioni, c’è invece l’accento vibrante di una natura piena, del profumo di una terra fertile, quando lo sguardo coglie le cose in un lampo prolungato, inestinguibile.
Forse è proprio questo il senso di un quadro molto bello come “Respira l’inverno” ( cm. 136 X 163, tecnica mista su tavola ) : un ceppo di confine o un albero caduto, l’essere il silenzio e il gelo, l’essere il silenzio della natura che riposa, l’essere un colore continuamente dilatato che risuona, silenzio nel silenzio. .
Una pittura senza dubbio pensata, lontana dalla estemporaneità gestuale che fu proprio di quel linguaggio cui pur si rifà nell’aderenza stessa alla fenomenologia della materia, cioè l’Informale.
Pensata come specchio e luogo di elaborazione di un’esperienza – specimen fissata, per così dire, in vitro e alimentata con la linfa di una sensibilità adeguatamente reattiva.
Perciò Alessandra compie l’atto di appoggiare alla parete, un ramo, filo di vita e di natura che è pure un’astrazione, una linea, una presenza nello spazio capace di sollecitare reazioni associative di forme e colori. Si hanno così aree di colore a volte terroso (rossastro o bruno ), altre acquatico, a volte animato da venature e colature, altre attraversato da una traccia ( una corteccia, un ramo, un esile fascina), in un sovrapporsi e mescolarsi di elementi di natura a uno sfondo di colore sempre naturali (cenere, caffè, terra).
Ecco un “paesaggio” rifatto in pittura di pochi, essenziali, elementi i cui spazi, le cui grinze, i cui movimenti e punti fissi contengono combinazioni e rinvii illuminati. C’è una sorta di cartesianesimo non geometricamente presuntuoso, ma umilmente terrestre, l’incrocio di una orizzontale con una verticale che non è più l’utopica chiarezza del razionale, ma resta un “coordinamento” del magma;penso e costruisco relazioni, dunque, sono in “situazione” davanti a un piccolo spazio, cioè dentro a uno scarnificato e essenziale teatro del tutto… pieno di echi tanto più significativi quanto più silenziosi e, nel distraente tumulto del mondo, insignificanti.
E così la pittura è tanto più ricca di pathos quanto più povera di mezzi ed effetti. Ricca anche di progetto, di autoprogettazione e autoregolamentazione, spendendo parcamente se stessa come per sopravvivere all’assedio.
In fondo la pittura di Alessandra Rovelli nasce dal bisogno di verificare, attraverso il confronto di più fasi operative, un dato tema, ribadito e rinnovato in molteplici variazioni. Ma questa necessità razionale non ne raffredda l’emozione, in lei così lirica ed insieme così sensuosa, del dipingere, del “fare pittura”.
Le cortecce, i rami, le piccole “presenze” di piombo o rame cui ella chiede lo spunto, l’incipit, sono dei minimi pretesti per poi creare ed elaborare un “racconto” fatto di segni, tracce, colori e addensamenti materici, gesti impetuosi o teneramente estenuati con lo spazio che li contiene quasi sempre individuabile: un tratto di muro, un brano di terra, la vastità di un paesaggio spoglio. 
Ma detto questo non bisogna sottovalutare che per Alessandra il “problema” della pittura coincide con la definizione della superficie. Fare pittura é circoscrivere una porzione bidimensionale e dargli un senso, la difficoltà e il fascino dell’operazione risiede nell’equilibrio che la pittura deve mantenere tra la definizione di un concetto e la realizzazione di sé come manufatto. Sono allora la presenza forte del colore e i lievi interventi che ne muovono la stesura a completare l’assunto iniziale per cui al concetto di superficie si accosta la fisicità della pittura nella percezione di un accadere che vive l’idea a cui si accompagna. Alessandra si muove su due piani distinti e complementari: da un lato lo sviluppo materico di una superficie magmatica, dall’altro l’inserto di elementi apparentemente estranei e forse proprio per questo vagamente inquietanti.
Per quanto concerne il terreno pittorico va spesso evidenziata una sorta di tattile ruvidità che non può essere confusa con la semplice ricerca linguistica o sperimentazione tecnica.
In questo caso la “pelle” dell’opera è qualcosa di più complesso, è uno spazio animato, è l’ambiente in cui si compie l’azione pittorica ed è il soggetto di tale agire. Il sussulto materico e il coagulo cromatico non rappresentano cioè, come dicevamo, la casualità gestuale di una espressività istintiva, al contrario ogni sobbalzo, ogni colore, ogni asperità della superficie, lungi da un’accidentalità contingente, è parte integrante di uno spazio, tratto distintivo di un territorio, cicatrice riconoscibile di una pelle che si rigenera a ogni lacerazione.
Il panorama è così tracciato. Lo spazio si arricchisce di sempre nuovi dettagli, lo sguardo è costantemente catturato da inattesi frammenti, curiosi reperti, misteriosi particolari. Presenze che scuotono il precario equilibrio del territorio contribuendo a creare una sorta di scarto percettivo, di sconcerto intellettuale; l’ “immagine” si delinea nello spazio scenico imponendo una diversa centralità e un nuovo ordine compositivo ed è allora che la magia del simbolo acquista un mistico significato che conferisce a tali presenze il senso dell’apparizione, del miracolo, della rivelazione.
Del resto nel lavoro del pittore, si sa, è talvolta compreso il dovere supplementare di ridare al mondo le ragioni del sublime nonché di salvaguardarne l’essenza iniziale; parlo di una pittura della salvezza, di una pittura che aspira a custodire il meglio del mondo e della sua memoria. È così, credo, da questo calcolo intellettuale ed emozionale insieme che nell’arte di Alessandra Rovelli appare la natura.
Dovrà pure il pittore, in questo inizio secolo traballante e privo di difese, trovare un proprio rifugio ideale, che so, un luogo che mantenga intatto il sentimento del esserci nel mondo in nome dell’armonia.
Ecco allora questa natura solennemente composta, un paesaggio del tempo che custodisce e riafferma l’aspirazione al sublime. Ma siamo ben lungi dai paesaggi della nostalgia pittorica, la necessità poetica della Rovelli si trova altrove, la storia c’entra ben poco.
Il senso che la guida è un altro: è l’immobilità delle cose vere, è la convinzione di poter trovare una scienza delle emozioni in assenza di peso storico. E non è neppure un paesaggio letterario, ha piuttosto l’esemplarità del tempo sospeso, la misura di una profondità, di un insediamento lontano del pensiero che è vento e apparizioni, sostanza e confine.
Davanti a certi quadri allora non si sfugge alla inquietudine, ci sono opere che continuano ad essere “soglia”, soglie insidiose dietro le quali, come scrivi uno dei rari amici della vera pittura, Yves Bonnefoy, “qualcosa urta/ urta per sempre”.

Orietta Pinessi
In Città dei Mille, 2003